Nutrire con cura anche in presenza di disfagia
Pubblichiamo la prima parte di un estratto dal testo “Nutrire con cura. La trasformazione della cultura alimentare nel rispetto della tradizione” di Giovan Battista Varoli, pubblicato nel libro “A CENA IN RSA: NUTRIZIONE, GUSTO, CULTURA”, Maggioli Editore, a cura di Irene Bruno, Alessandro Meluzzi, Vincenzo Pedone, con Prefazione di Umberto Veronesi
La carenza nutrizionale che può essere causata dalla disfagia influisce sullo stato di salute generale della persona e in particolar modo su alcune patologie. Per tale ragione credo sia necessaria, da parte di tutto il sistema sanitario, un’attenzione particolare e specifica nell’affrontare questa problematica in modo operativo, tenendo conto sia di aspetti organizzativi del servizio (tecnici, nutrizionali, logistici, igienico-sanitari, economici) sia, in particolare, del risultato per gli ospiti (qualità nutrizionale, qualità percepita, adattabilità ed elasticità degli orari e delle quantità, ecc.).
Mangiare non è soltanto nutrirsi, ma anche piacere sensoriale, memoria personale, cultura, relazione con l’altro. È necessità di sopravvivenza, ma anche esperienza culturale ed emotiva che riguarda tutta la persona: se privato di questo significato e di questa ricchezza di sfumature, se reso innaturale a causa del tipo di cibo e del contesto in cui il cibo viene fruito, può trasformarsi in un’attività frustrante, influendo negativamente sia sullo stato psicologico della persona che sulla quantità di cibo e di principi nutrizionali assunti.
In particolar modo, se il cibo che viene proposto risulta impersonale, privo di riferimenti alla memoria culinaria del singolo, ai suoi ricordi, ad abitudini familiari e locali, se si trasforma in un gesto meccanico e ripetitivo, poco diversificato nelle proposte, uniforme nei colori, nei gusti e negli odori, insomma se il cibo si trasforma in qualcosa di completamente diverso da quello che la persona stessa era abituata a mangiare e che faceva parte integrante del suo stile di vita, sicuramente lo specifico problema di salute da cui è affetta si risolverà con maggiori difficoltà rispetto a chi abbia l’opportunità di accedere a un modo di mangiare che mantenga, nella misura maggiore possibile, dal punto di vista culinario e sensoriale, caratteristiche tradizionali e che sia connotato dalla massima varietà di offerta, in modo da rispondere al meglio alle singole esigenze – ferme restando, ovviamente, le necessarie caratteristiche di omogeneità fisica cui deve rispondere la pietanza per poter essere assunta in sicurezza ed efficacia da chi soffre di disfagia.
Penso che questi aspetti, legati alla percezione del cibo, siano determinanti anche ai fini di risultati nutrizionali effettivi e non teorici, rappresentando quindi un elemento centrale nella valutazione e individuazione di soluzioni efficaci e concrete.
Mi preme inoltre sottolineare un aspetto chiave: affrontare il problema della disfagia in una struttura sanitaria significa sempre coinvolgere molteplici attori: la persona che ne soffre, i suoi familiari, i medici, il nutrizionista, il logopedista, il personale infermieristico, il personale addetto al servizio di ristorazione, la società di catering, se il servizio è esternalizzato, il dirigente che cura l’affidamento del servizio, il cuoco e il responsabile della cucina se il servizio è gestito internamente. È necessario prendere in considerazione tutte queste figure e coinvolgerle, senza alcuna esclusione, nell’analisi del contesto, nella valutazione e nella scelta delle soluzioni.
La pratica più diffusa attualmente consiste nel frullare, piuttosto che omogeneizzare, i piatti della cucina e del menù “normale”. E probabilmente si tratterebbe, in astratto, della scelta preferibile, se fosse possibile realizzarla in modo perfetto e costante. Ma numerose difficoltà oggettive, tecniche e organizzative, ne condizionano l’efficacia, in modo più o meno evidente a seconda dei contesti.
Spesso, per esempio, non viene prodotto il frullato di ogni singolo piatto del menù, ma si mescolano tra di loro più pietanze al fine di “creare” una sorta di piatto unico, con l’obiettivo di renderlo più nutriente e completo. Ed è ben chiaro che, dal punto di vista della percezione e della salvaguardia del piacere del cibo, non ci si trova certamente, in questo caso, di fronte ad un’opzione positiva, efficace, stimolante. Spesso, inoltre, viene proposto un menù specifico per gli ospiti e i pazienti disfagici e in tale menù si privilegiano in modo ripetitivo per lo più piatti che portano a un risultato complessivo nutrizionale non adeguato.
Altro tema delicato: la distribuzione del cibo. Per comprensibili ragioni organizzative ed economiche, la somministrazione delle pietanze non può che avvenire in orari predefiniti e rigidi, rendendo impraticabile l’approccio elastico che invece sarebbe necessario rispetto alla persona disfagica, il cui bisogno spesso è quello di potersi alimentare con piccole quantità di cibo, ma frequentemente, e comunque in momenti diversi e distribuiti nella giornata.
Per tutti questi motivi, quasi sempre si finisce con l’integrare l’alimentazione tradizionale frullata, che viene apprestata in cucina, con i prodotti delle case farmaceutiche: piatti frullati bilanciati, integratori, preparati vari a seconda delle esigenze. In alcuni casi, addirittura, questi prodotti prendono il sopravvento, diventando la principale fonte di nutrizione. Ciò determina a mio avviso ulteriori problemi e inefficienze del sistema nel suo complesso: caratteristiche organolettiche distanti da quelle tradizionali, ripetitività o talvolta assenza di gusti, colori, odori, perdita della memoria e del piacere, meccanicità nell’assunzione, costi più elevati rispetto al cibo frullato.
In definitiva, una spersonalizzazione di tutte le fasi e gli aspetti del gesto alimentare, che finisce per essere ridotto a mero atto di sussistenza e che allontana sempre di più la soluzione, non consentendo la salvaguardia, per la persona disfagica, di un rapporto il più possibile naturale, tradizionale e non deprimente con il cibo. E credo sia indubbio ed evidente a tutti che una relazione complessivamente piacevole col cibo contribuisca ad aumentare anche la quantità di alimento assunto e quindi il suo valore nutrizionale.
[continua]
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