Il pasto nelle case di riposo
Un’occasione per prendersi cura della persona
Qual è il significato del momento del pasto? Quanto è importante in contesti problematici, come in presenza di difficoltà cognitive o relazionali? Intervista a Federica Taddia, educatrice, formatrice, counsellor presso Villa Ranuzzi e Villa Serena Bologna
Qual è, per lei, il significato del momento del pasto?
Per me il pasto è un momento di condivisione. Probabilmente questa percezione viene dall’educazione ricevuta: nella mia vita il pasto è sempre stato il momento in cui la famiglia può incontrarsi e scambiarsi opinioni e raccontarsi la giornata. A casa non abbiamo neanche la televisione dove mangiamo, proprio per lasciare integro questo spazio di convivialità.
Quando si presentano delle difficoltà nell’atto della nutrizione, come si trasforma il momento del pasto?
Quando ci sono delle difficoltà cognitive, insorgono una serie di problemi legati all’inappetenza e a una difficoltà nell’alimentarsi. I problemi non sono sempre organici e clinici, ma derivano dal fatto che viene a mancare qualcosa: può essere un punto di riferimento oppure delle abitudini consolidate.
A questo riguardo ci sono da fare due considerazioni. Innanzitutto, l’importanza nel curare la predisposizione del cibo e il contesto in cui pranzare o cenare. Questo perché le persone con deterioramento cognitivo hanno difficoltà a mantenere un’attenzione divisa su più elementi.
Quindi ogni aspetto che si inserisce tra la persona e il piatto può creare distrazione e affaticamento: perciò questo elemento deve essere tenuto in grande considerazione. A volte la persona smette di mangiare non tanto perché non ha fame, ma perché lo sforzo che le si richiede è tale che a un certo punto non riesce più a gestire entrambe cose. Occorre pertanto un’attenzione a come disponiamo il cibo, a cosa mettiamo sulla tavola, se diamo troppe o poche informazioni, alla luce, alla temperatura, a tutti gli aspetti legati al microclima.
C’è poi un aspetto più relazionale. Ad esempio, le persone che non erano abituate a mangiare insieme ad altri oppure che negli ultimi anni avevano perso questa abitudine, possono incontrare difficoltà nel pranzare o cenare in un contesto così collettivo. In questo caso si deve cercare di rispettare le loro necessità e farli mangiare in camera. Oppure possono avere abitudini specifiche: mangiare ascoltando la musica in sottofondo o guardando la televisione oppure con qualcuno affianco.
Cercare di mantenere per quanto possibile le abitudini della persona incide moltissimo sull’appetito e sulla motivazione ad alimentarsi. Perché per ognuno di noi ha un significato ben preciso e diverso il momento del pasto.
Come educatrice, di cosa si occupa durante la giornata? Come si colloca il pasto nell’insieme delle attività?
Come educatrice sono responsabile delle attività socio-educative e di stimolazione della funzione cognitiva. Mi occupo di monitorare e supervisionare quello che avviene nelle strutture di Villa Ranuzzi e Villa Serena. Quello che, insieme al mio gruppo, cerchiamo di fare è rilevare i bisogni delle persone: imparare a comprenderle, imparare a conoscere la rete familiare, il carattere, il temperamento, gli interessi pregressi, la storia individuale e poi su questa base programmare un percorso che li veda coinvolti durante la loro quotidianità in attività che abbiano uno scopo.
A volte è necessario lavorare sulla creazione di una relazione con l’altro: il pasto rientra in questo contesto. Nel costruire una relazione che possa creare una continuità rispetto alla vita precedente.
Si lavora sia individualmente che in piccoli e grandi gruppi, cercando di creare dei contesti di socializzazione in modo che le persone escano da quella sorta di isolamento di tipo socio-affettivo che si può trovare nelle strutture per anziani.
Nel libro “A cena in RSA: Nutrizione,Gusto, Cultura” Maggioli Editore parla della signora Maria…
La signora Maria aveva smesso di alimentarsi a causa di un problema relazionale, tanto che i medici avevano ipotizzato l’inserimento di un sondino nasogastrico. Poi, parlando con i familiari, abbiamo potuto capire il suo ambiente di provenienza: aveva delle abitudini, al momento del pasto, che non erano più state mantenute nel tempo. Condivideva i pasti con il marito, in un ambiente silenzioso, senza troppi stimoli. Invece in struttura si era ritrovata il contrario. Allora abbiamo ricreato il suo ambiente, con una musica classica in sottofondo, un centrotavola, un contesto tranquillo e gradevole. Piano piano abbiamo creato un rapporto più individualizzato, in particolar modo con un collega. Ha ricominciato gradualmente ad alimentarsi e i medici hanno evitato di dover inserire il sondino. Questo è stato un intervento relativo a un rapporto relazionale che ha avuto delle ricadute importanti sul benessere complessivo della persona.
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